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Non posso fare a meno di chiedermi se le cose di cui ci occupiamo quotidianamente dal punto di vista professionale siano vicine al mondo delle persone e non solo a quello dei ruoli e delle organizzazioni.

Per noi che ci vantiamo di aiutare le Persone è una domanda decisiva, ne va del senso che diamo alla nostra identità professionale.

Ad esempio, noi ci occupiamo, fra le altre cose, di conflitto e di negoziazione.
Le riflessioni che favoriamo, le esperienze che proponiamo, i processi a cui assistiamo e che proviamo ad animare, gli strumenti che forniamo, tutta questa “mercanzia” è parente stretta di ciò che servirebbe per contribuire a risolvere i disastri che vediamo quotidianamente in televisione in queste settimane?
O sono solo dei bei discorsi vuoti, buoni per la retorica del management e per lo stanco vocabolario aziendalistico?
C’entrano con la vita vera o appartengono ad un mondo parallelo tenuto in piedi da una farsa e abitato da commedianti?

Quando arrivano i tromboni a parlarci dei “6 step di qui”, dei “10 passi di là”, ecco, ci propongono qualcosa che in Palestina potrebbe funzionare?
Se la libertà di trovare un accordo passa attraverso la libertà di non trovarlo possiamo perciò prendere in considerazione l’ipotesi di una guerra infinita attendendo che una parte annienti l’altra?
Se io penso che tu non debba esistere come faccio a immaginarti come interlocutore?
Quale relazione è possibile se penso che chi non la pensa come me deve andarsene, oppure convertirsi se vuole mantenere il diritto a vivere?

Questo clima è ormai, purtroppo, anche il clima di molte organizzazioni.
Il contributo che noi formatori portiamo è dunque ancora coerente con la vera dimensione del problema?
O continuiamo a parlare di brioches a chi non ha più pane?

Oh! Mi è chiaro che i temi che gestiamo professionalmente non sono nemmeno paragonabili a quelli che vediamo in Israele o in Palestina, in Siria, nel Darfur.
Che un conto è chiudere una trattativa con un margine più basso del previsto e un altro è vedersi bruciare la casa.
Che un conto è non fare il budget e un altro è diventare un profugo.

Ma sebbene di proporzioni incomparabili

il senso delle cose che proponiamo alle organizzazioni deve essere il medesimo, la natura deve essere la stessa.
O riusciamo a stare (o a tornare, o ad andare finalmente) al centro delle cose e a fare sul serio o anche la nostra professione di formatori scomparirà.

Non è più tempo di formazione come alternativa alla politica retribuita o come surrogato dello sviluppo di carriera o come assenza di presidio manageriale.
Questa formazione ha dato da mangiare a molti negli scorsi decenni ma è, fortunatamente, in via d’estinzione.

Di fronte alla carne ferita e ai diritti negati nessuno può permettersi di giocare con le parole.
Almeno, non nel mio nome (di formatore).

4 Comments

  • don Claudio says:

    belle domande.
    Stessa riflessione vale anche per noi come preti e più in generale come Chiesa, sia parrocchiale con tutte le molte iniziative formative presenti per i vari livelli e fasce di età, sia come Chiesa universale nel suo compito di annuncio e formazione delle coscienze a livello mondiale.
    Non saprei dare risposte precise, ma sento che le domande che avete posto sono vere e serie.
    bye
    donCi

  • Stefano Facheris says:

    Giacché sei una Persona che stimo immensamente, mi fa piacere sapere che condividiamo le stesse domande.
    Un abbraccio. Stefano

  • Roberto says:

    Ciao Stefano,
    io non ho risposte, ma credo che se più persone si ponessero le stesse domande che poni tu, forse qualche evoluzione potrebbe esserci

    oggi sentivo via radio uno spezzone dello spettacolo di Lella Costa sulla guerra (dello scorso anno se non erro).
    Riportava questi dati.
    Prima guerra mondiale più 95% vittime militari, meno del 5% civili
    Guerre attuali: più del 90% civili, meno del 10% militari.
    Questo nonostante convenzioni di Ginevra ecc., formazioni agli ufficiali militari in tal senso ecc….
    I conflitti ci sono sempre e sempre ci saranno.
    Ma questa è l’evoluzione della specie?

    • Stefano Facheris says:

      Se pensi che c’è qualcuno che da dell’ipocrita a Papa Francesco perché dice che occorre fermarli ma senza bombardare… Dargli dell’ipocrita significa immaginarsi solo 2 strade: soccombere o far soccombere. Mi sembra un pessimo modo di fare diagnosi e di negoziare, per stare sui temi di evolve…
      Se qualcuno avesse fatto un po’ di problem finding serio (altro che le baggianate del management consulting) forse non saremmo ora con l’acqua alla gola e davvero senza prospettive…
      Grazie che ci leggi, è bello sapere che ci sei. SF

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